Clemente Rebora – La vita e le opere

 La vita

Clemente Rebora – il grande poeta innamoratosi di Cristo crocifisso – nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l’accademia scientifico letteraria di Milano – presso la quale si laurea – era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l’attività d’insegnante. La scuola è per lui luogo d’educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a “La Voce”, la prestigiosa rivista fiorentina.

Come quaderno de “La Voce” esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un’artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i biografi parlano di «nevrosi da trauma»).
Nell’immediato dopoguerra torna all’insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama.
Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, «l’ignorato Battesimo operando», egli è sempre più affascinato dalla religione. Lo si evince anche dai Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922.
Nella stessa direzione va la sua iniziativa editoriale: I sedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale (e su tali argomenti è anche apprezzato conferenziere).
Sono questi, diversi segnali che preludono all’approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929. Decisiva è per lui la figura dei cardinal Schuster, da cui riceve il sacramento della Cresima. Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare: nel suo caso è quello rosminiano, con il «voto di annullamento» – perdersi per ritrovarsi -, con la mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio».

Nel Curriculum vitae il poeta, ormai anziano, ricorderà Rosmini come il maestro cui filialmente si era affidato, forma attraverso la quale la novità di Cristo aveva investito e cambiato la sua persona:

E fui dal ciel fidato a quel sapiente
che sommo genio s’annientò nel Cristo
onde Sua virtù tutto innovasse.
Dalla perfetta Regola ordinato,
l’ossa slogate trovaron lor posto:
scoprì l’intelligenza il primo dono:
come luce per l’occhio operò il Verbo,
quasi aria al respiro il Suo perdono.

La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell’Istituto rosminiano di Domodossola, nel ’33 emette la professione religiosa, nel ’36 è’ ordinato sacerdote. Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all’azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell’infermità, del 1957, l’anno della morte di Rebora.

La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.
Tra questi autori che «testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
Il suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:

un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto,
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.

Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.
Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».
Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».

E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:

Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!

La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».
E’ la dinamica de Il pioppo di Rebora (come già de Il libro di Pascoli, dal quale il poeta rnilanese riprende la tripletta di rime: «pensiero-mistero-vero”):

Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.

Tutto il reale è segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là; tutto è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Se l’allodola era, in Claudel come in Pascoli, aereo simbolo dell’uomo che ha riconosciuto Dio e spende la vita per lodarlo, nel giovane Rebora è invece l’emblema del poeta: teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, egli canta l’elegia dello schiavo consapevole, inchiodato alla missione di richiamare i fratelli (apparentemente) liberi a prender coscienza della propria condizione. Ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:

O allodola, a un tenue filoavvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l’ali.

Egli resta “spatriato quaggiù, Lassù escluso».
Eloquente questa confessione, nell’ultimo dei Frammenti lirici:

Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca:
e domandava la vita.

Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità.
In Dall’intensa nuvolaglia il poeta proietta in un evento esterno – il ternporale – l’incombenza minacciosa che intimamente lo pervade. Coscienza del male e domanda di Bene: in 0 pioggia dei cieli distrutti  «un’ansia continua di superamento, una richiesta di assoluto muove anche dai più comuni spettacoli, come quello della pioggia» (G. Bàrberi Squarotti). In 0 carro vuoto sul binario morto il dato realistico viene «trasformato in inquietante simbolo di un condizionamento senza scampo – il binario che costringe ad una rotta vincolata – e di ansia per il libero spazio»: è il contrasto esistenziale «tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto» (E. Gioanola).

Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesasta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».
Strutturalmente è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l’istante, all’erta come sentinella (o come le vergini prudenti: imminente è l’arrivo dello Sposo). «Nell’ornbra accesa» (ardito ossimoro), nel buio dell’incertezza in cui scintilla l’attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d’impercettibili suoni, profumati e leggeri come polline (splendida la sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non aspetto nessuno», pre-sente di essere sull’orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Curriculum vitae

In quest’opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un’anima vagava». Ogni “idolo” illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m’esaltavo in fama /di musico e poeta e grande saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità: «Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l’incontro con l’Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di camminare lieto, «ri-cordando» – portando nel cuore – Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno, officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si insapora d’un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.

Da Roberto Filippetti _ IL PER-CORSO E I PERCORSI – Schede di revisione di letteratura  italiana ed europea volume terzo “Da metà Ottocento al 2000” – Ed. ITACA